Quella mattina la professoressa Antonella Palma era in ritardo. Insegnante di lettere presso il Liceo classico di Termoli era solitamente molto puntuale. Detestava i suoi colleghi che con scuse variopinte si presentavano in classe con quei diversi minuti di ritardo, non aveva altro da fare, ma la riteneva una mancanza di rispetto.

Una volta Patrizia, l’insegnante di Inglese, era riuscita a inventarsi la rottura dell’ennesimo tacco a spillo pur di giustificare la sua cronica abitudine a svegliarsi dieci minuti prima del suono della campanella, abitando nel palazzo di fronte la scuola.

Antonella era diversa. Amava svegliarsi con calma, fare colazione seduta comodamente davanti al suo caffè fumante, prepararsi con cura e mettersi in auto almeno un’ ora di anticipo rispetto all’orario stabilito.  

«Dove ho messo le chiavi? Devo aver cambiato borsa e le ho lasciate nell’altra» si muoveva in modo frenetico da una stanza all’altra, raccogliendo oggetti, tra cui un rossetto, un fazzoletto di stoffa e finalmente, le chiavi dell’auto.  

«Ci mancava solo la pioggia. Per fortuna che in macchina ho sempre l’ombrello, con tutta questa umidità sarà contenta Angioletta, la mia parrucchiera, da cui dovrò andare anche domani.»

Antonella, non parlava quasi mai da sola, ma quella mattina cercava di farsi compagnia con il suono della sua voce per darsi la sveglia giusta in modo da affrontare quella lunga giornata d’inverno.

Il cancello lasciato aperto da suo fratello Michele con il quale condivideva una villetta bifamiliare, facilitò il compito della donna che si mise in macchina e dopo un secondo era già in direzione di Termoli.

La pioggia aumentava di intensità tanto che i tergicristalli, in quell’incessante e rumoroso strisciare sul vetro, faticavano a togliere l’acqua che veniva giù a secchiate.

Dopo aver percorso le prime curve che dal paese conducono alle Piane di Larino, all’altezza del Traforo Magliano, l’ennesimo inconveniente di quella giornata nata male.

Un grosso camion pieno di sabbia percorreva lentamente la strada e per giunta il continuo sobbalzare del carrello faceva cadere parte del carico che si depositava sulla strada rendendo estremamente pericolosa.

«Ci mancava solo questo bestione. Dai spostati che vado di fretta!» Antonella iniziò a suonare con il clacson sperando che l’autista del mezzo accostasse sulla destra per favorire il suo sorpasso.

Con uno scatto poco consueto alla sua indole, la donne scalò la marcia, facendo prendere velocità al suo veicolo che riuscì, malgrado la strada piuttosto stretta, a sorpassare il mezzo pesante.

Pochi metri più tardi, in prossimità della curva denominata dei Boccardi, per la presenza dell’omonima società di auto demolizioni,  la macchina della professoressa iniziò a sbandare. L’asfalto reso viscido dalla pioggia, la velocità sostenuta e soprattutto l’imprudenza della guidatrice furono un cocktail micidiale: girandosi due volte su se stessa, la macchina urtò con violenza il cancello della casa cantoniera e terminò la sua corsa nella cunetta.

La donna dopo aver battuto violentemente il capo contro il finestrino, rimase inerme nell’abitacolo, priva di sensi, con un filo di sangue che le solcava la fronte.  

In un attimo tutte le auto di passaggio si fermarono per prestare i primi soccorsi alla donna rimasta bloccata all’interno della vettura semi distrutta. Sotto la pioggia battente un paio di uomini provarono ad aprire la portiera, un altro si avviò verso l’officina meccanica nei paraggi per chiamare l’ospedale.

Antonella riprese i sensi pochi istanti prima che giungesse una pattuglia dei Carabinieri e l’autoambulanza del “Vietri”.

Il comandante Maroni, dopo essersi assicurato sullo stato di salute della donna, coordinò la ripresa della normale circolazione stradale, mentre i sanitari prestavano soccorso ad Antonella, dolorante,  ma cosciente.

«Signora mi riesce a sentire? Dove ha dolore?» uno dei medici rivolgeva alcune domande alla donna per valutarne lo stato di salute, mentre due infermieri preparavano una barella per imbracare la donna.  Antonella, evidentemente sotto choc, non riusciva a parlare ma scuoteva la testa in modo affermativo per tranquillizzare i sanitari sulle sue condizioni.

Nel breve tragitto che la conduceva in Ospedale per i dovuti controlli, Antonella scrutava quei tre angeli custodi che si stavano prendendo cura di lei.

In particolare, rimase colpita dal fatto che uno di loro le mantenesse la mano, senza nessun motivo apparente solo per far percepire la vicinanza e dare un segno tangibilità di umanità.

Antonella non riusciva a distinguere queste persone, con il collo bloccato sul lettino e con una serie di dolori che le impedivano ogni minimo movimento, si lasciò curare e sostenere, infine chiuse gli occhi per cercare di rilassarsi.

Fortunatamente gli esami al pronto soccorso non riscontrarono alcuna frattura, ma i medici decisero di ricoverarla ugualmente per precauzione. Antonella, non obiettò nulla e dopo essersi sdraiata sul letto che le era stato assegnato, si addormentò.

Dopo alcune ore Antonella si risvegliò e grazie anche ai farmaci che le erano stati somministrati, sembrava percepire meno il dolore al braccio e alla testa. In quello stato di semi torpore, si sentì prendere la mano. Le sembrava di vivere nuovamente quella sensazione dell’ambulanza, quel piacevole benessere che una mano calda e avvolgente sa fornire.

A fatica aprì gli occhi e davanti le sembrava di riconoscere lo stesso viso che qualche ora prima l’aveva soccorsa in strada.

«Come stai? Come ti senti?» a bassa voce quello che Antonella aveva definito angelo custode le sorrise.

«Molto meglio grazie. Mi sono spaventata tanto, devo aver battuto la testa perché ho un ricordo molto confuso di ciò che è accaduto.»

«Adesso devi solo pensare a riposare. Se ti fa piacere, passo più tardi a vedere come ti senti.»

Antonella annuì e lasciò che quella mano delicata si staccasse.

Con un filo di voce, mentre  quel camice bianco si allontanava, Antonella disse:

«Mi puoi dire come ti chiami? Non ti conosco.»

«Mi chiamo Andrea. Non mi conosci perché lavoro a Larino da pochi giorni, vengo da Firenze.»

Quella sera e anche la mattina dopo Antonella e Andrea parlarono a lungo.

La professoressa, forse per la prima volta dopo la morte del proprio compagno, Vittorio Battista, si stava confidando con qualcuno. Era davvero molto strano quello che le stava accadendo: si sentiva compresa, apprezzata e soprattutto, cosa che non riusciva a spiegarsi, provava un’attrazione quasi incontrollata per Andrea.

I capelli lunghi fino alle spalle, quelle mani forti e delicate al tempo stesso, le provocavano un piacere intenso che Antonella non provava da tempo o forse, non aveva mai sentito in quel modo fino ad allora.

La loro frequentazione era durata oltre la breve degenza ospedaliera e dopo circa due settimane di incontri fugaci e lunghe telefonate, quella fredda sera di febbraio sarebbe stata la prima volta di Andrea a casa di Antonella. La polenta di mais era il pretesto per una cena attesa, desiderata da tempo, ma sempre rimandata per quello che poteva significare per entrambi.

Andrea arrivò puntale. Una bottiglia di vino rosso tra le mani, nascondeva tutto l’imbarazzo per quei primi secondi insieme in quella casa, l’impaccio di dove appoggiare il cappotto, di dove lasciare l’ombrello, di cosa dire e soprattutto cosa non dire. Sembrava la prima volta.

Qualche fiocco di neve iniziava a scendere dietro i vetri, il tepore del camino fece il resto.

Prima ancora di iniziare a mangiare, i due si abbracciarono, si strinsero con passione, si baciarono con desiderio, fino a rimanere nudi.

Andrea accarezzò il seno di Antonella, Antonella accarezzò il seno di Andrea. Si allungarono sul tappeto di fronte al fuoco e iniziarono a toccarsi come mai avevano fatto prima.

Rimasero lì, per ore, nella semi oscurità, a guardarsi, a scrutare una il corpo dell’altra, a difesa di quel sentimento nuovo, forte, bello. Rimasero lì, senza parlare, senza darsi spiegazioni, senza chiedersi come o perché assaporando ogni secondo di quella nuova e splendida emozione.

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